Prof. Luigi Berardi

Prof. Luigi Berardi

Quando ho avuto l’incarico di raccogliere queste interviste per il centenario dell’Istituto “P. F. Calvi” non ho impiegato più di qualche secondo per includere il prof. Luigi Berardi nella lista dei papabili che mentalmente mi stavo creando, sicuro della sua disponibilità.

Non mi sbagliavo perché è bastata una telefonata per accordarci sui tempi dell’intervista ed ora mi trovo nella sua abitazione pronto a registrare il suo flusso di ricordi.

Quando ha iniziato ad insegnare al Calvi?

Ho iniziato ad insegnare al Calvi nell’anno scolastico 1962/63, quando, avendo acquisito l’abilitazione all’insegnamento per cui avevo sostenuto l’esame, mi fu dato un incarico triennale: mi fu assegnata una cattedra con orario diviso fra l’Istituto Scalcerle (sette ore) ed il Calvi (otto ore). Il primo anno al Calvi mi furono assegnate due terze, in ciascuna delle quali insegnavo quattro ore, esaurendo così le mie otto ore. Le due terze erano composte rispettivamente da trentacinque e da trenta alunni. In una delle due trovai un gruppo di ragazzi che costituivano delle eccellenze, soprattutto perché avevano voglia di imparare, per cui la mia soddisfazione era proprio quella di integrare i libri di testo. Per ulteriore mia soddisfazione, se non è troppo, seppi da loro che per preparare l’esame di Diritto privato all’Università utilizzarono gli appunti presi durante le mie lezioni.

Poi, avendo superato anche il concorso per divenire di ruolo, nel 1966 ottenni la cattedra in un’unica scuola, cioè al Calvi per sedici ore settimanali. Fu un colpo di fortuna perché inizialmente ero stato assegnato a Cittadella, ma essendosi liberata una cattedra al Calvi, riuscii ad ottenere la cattedra a Padova.

Al Calvi rimasi fino al 1982. Cessai volontariamente di insegnare anche per ragioni economiche, perché le soddisfazioni della scuola non erano certo di natura economica, perché negli ultimissimi anni avevo constatato che i ragazzi non volevano più studiare, come invece si faceva fino a qualche anno prima; proprio non avevano voglia di imparare e qualcuno diceva apertamente che non era interessato alle materie che insegnavo vuoi perché, dicevano, non gli entravano in testa, vuoi perché gli sarebbero entrate in testa se solo avessero avuto voglia di studiare. Nello stesso tempo, avendo iniziato l’esercizio della professione questa attività si era espansa abbastanza, per cui ad un certo momento mi divenne difficile conciliare le due attività. Di conseguenza il nove di settembre del 1982 dissi addio alla scuola.

Nel corso di questi vent’anni di vita all’interno del sistema scolastico e del Calvi in particolare quali sono stati i più importanti cambiamenti che ha potuto riscontrare, sia per quanto riguarda gli studenti e i docenti, sia per quanto riguarda la didattica in generale?

Per quanto riguarda gli studenti ho in parte già risposto. Posso aggiungere che se un insegnante si accorge che agli studenti non sono interessati a quello che spieghi non ti viene voglia di insegnare, ti chiedi continuamente chi te lo fa fare se poi a questi non importa niente.

Per quanto riguarda i docenti, non ci sono stati grandi cambiamenti perché avevo avuto sempre ottimi colleghi e in Consiglio di classe eravamo più o meno tutti d’accordo sempre. Non era vietato

bocciare. Non era vietato rimandare. Ho un ricordo particolare di una terza inizialmente composta di ventitré alunni; di questi ne arrivarono in quinta in dieci: evidentemente gli altri avevano cambiato scuola o erano stati bocciati.

Passando alla didattica i cambiamenti dipendevano dalle modifiche normative che si sono succedute nel tempo; un aiuto importante lo ebbi dalla lettura quotidiana del Sole 24 Ore, cui mi ero abbonato fin dall’inizio dell’attività d’insegnamento. Mi ricordo, ad esempio, che la modifica del capitale delle società per azioni avvenne, con decreto, proprio il giorno prima di quello in cui dovevo spiegare quell’argomento

Una cosa mi aveva colpito a quei tempi: fra voi insegnanti si usava del “Lei”, a differenza di quanto avviene ora. Era un rapporto più formale che amicale, almeno apparentemente. O era solo una mia impressione?

Con alcuni insegnanti eravamo anche in rapporti amichevoli; con altri colleghi non avevamo rapporti al di fuori di quelli che nascono all’interno della scuola, in particolare durante i consigli di classe che all’epoca era due o al massimo tre all’anno; con altri ancora il rapporto era a volte più difficile perché in occasione degli scrutini era complicato, se non impossibile, trovare un accordo anche su un voto in più o in meno per agevolare che ne aveva bisogno o anche lo meritava.

In occasione del nostro contatto telefonico per concordare questo incontro Lei mi disse che ha avuto delle grandi soddisfazioni dagli studenti del Calvi. In parte ha già accennato al fatto di aver insegnato a classi ottime, mentre verso la fine della Sua carriera ha incontrato delle difficoltà.

Una due terze che ebbi al primo anno di insegnamento al Calvi ebbe non solo un rendimento scolastico mediocre, ma con essa ci furono anche delle difficoltà ad instaurare un rapporto normale. A parte questo episodio, dovuto forse anche al fatto che ero all’inizio della mia carriera al Calvi, in seguito non ebbi alcun problema; come ho già anticipato, solo verso la fine della carriera si manifestarono casi di alunni che non avevano nessuna voglia di impegnarsi nello studio o che erano completamente disinteressati alle discipline da me insegnate.

L’instaurazione di un buon rapporto con una classe da chi dipende secondo Lei? Dagli alunni, dal docente o da entrambi?

Dipende da tutti e due. Se l’insegnante per primo dimostra di voler instaurare buoni rapporti e vede che i ragazzi hanno lo stesso interesse, tutto volge verso il meglio. Se invece ci si accorge fin dall’inizio che i buoni rapporti, pur cercati dall’insegnante, non trovano corrispondenza negli alunni si fa molta più fatica.

È vero che se non si riesce a coinvolgere la classe l’insegnante è costretto a svolgere l’attività didattica con molta più fatica e manca quella relazione a doppio senso che dovrebbe esserci fra classe e docente….

Ti confermo che se nell’ultimo periodo la situazione non fosse peggiorata a livello alunni probabilmente avrei fatto un altro anno di insegnamento, proprio perché la maggior soddisfazione è proprio quella di vedere che se tu sei preparato, ti aggiorni e dai il meglio che puoi e trovi chi è disposto non dico a riconoscertelo ma a farne tesoro a sua volta, allora tutto è diverso. Questa è la soddisfazione che dà la scuola, quella di vedere che non lavori per niente. D’altronde soddisfazioni economiche la scuola non ne ha mai date.

Nei vent’anni in cui ha insegnato al Calvi ci sono stati parecchi cambiamenti nella scuola italiana. In particolare l’esame di maturità, che oggi si chiama esame di Stato, ha visto modificate le sue modalità di effettuazione.

Io vissi tutte le modificazioni dell’esame di maturità. Fino al 1968 gli esami vertevano sul programma di quinta, ma con spazio a tutti gli eventuali riferimenti ai programmai degli anni precedenti. In particolare ricordo quando la commissione esaminatrice era composta da tutti docenti esterni cui si aggiungeva un commissario interno, ruolo quest’ultimo che più volte ebbi occasione di svolgere, alternandomi con il collega di Lettere. Gli studenti di quinta ce lo chiedevano espressamente, convinti, non so se a torto o a ragione, che noi saremmo stati in grado fossimo in grado di esprimere di fronte alla commissione dei giudizi che tenessero in conto l’andamento dei tre anni precedenti.

Dopo il 1968 l’orale si svolgeva su una materia scelta dal candidato e una assegnata dalla commissione d’esame…..

Esatto. Questo comportava che ciascun candidato faceva presente quale materia avrebbe gradito gli fosse assegnata al commissario interno e quest’ultimo cercava di far sì che la commissione seguisse i suoi suggerimenti, anche se non sempre ciò avveniva.

Parlando di risultati, devo dire che anche per me è stata una soddisfazione vedere che gli alunni che accompagnavo all’esame raggiungevano buoni risultati, vuoi ottenendo il massimo dei voti – che all’epoca era 60/60 – sia voti prossimi al massimo. Per amore di verità devo dire che c’era una differenza fra il rendimento delle ragazze e quello dei ragazzi. Nel 1972, in particolare, c’era una quinta composta di soli quattro ragazzi e da una ventina di ragazze. I quattro ragazzi presero tutti 36/60 (voto minimo), mentre fra le ragazze vi furono due 60/60, con esaltazione della loro bravura da parte della commissaria di Inglese.

Il discorso scivola sui rapporti con i genitori e scopro, con mia sorpresa, che anche cinquant’anni fa alcuni genitori si limitavano a far gli avvocati d’ufficio dei propri figli, in particolare di quelli che non raggiungevano i risultati sperati; niente di meglio, quindi, che sostenere che non era possibile che avessero un profitto insufficiente perché il loro figlio o la loro figlia a casa erano bravissimi per cui non era possibile che a scuola non lo fossero. Ovviamente, c’erano anche allora, come oggi, genitori che andavano a colloquio con gli insegnanti per sapere se i figli dovevano studiare di più, se studiavano abbastanza, se si comportavano bene, in uno spirito di collaborazione con la scuola.

Il colloquio con il prof. Luigi Berardi termina sorseggiando un caffè e con la disponibilità da parte sua a rispondere ad altre domande che mi venissero in mente in futuro. Quando spengo il registratore mi accorgo che il tempo è davvero volato sulla scia dei ricordi che le domande hanno suscitato nell’insegnante e che le sue risposte hanno fatto emergere in me, suo allievo di tanti anni fa.